[successiva revisione del titolo: "Acid Jazz"]
Se mai vi troverete a Montreal ad abbracciare Michelle,
ricordate di portarle le mie spoglie in fastoso corteo, davanti alla cascata.
Ho sempre sognato un enorme fiume che scorre su un letto di neve.
E corrode freddo e lento un vastissimo panorama di desolazione,
fragile ed eterno come un patto di sangue.
Ho sempre sognato che Michelle mi desse un bacio.
Disteso sulle mattonelle sconnesse. Vecchia la finestra e raggrinzita.
Pezzi di lacca da mandar via con le unghie. Sono chiuso al buio di una gabbia ingombra.
Lei è uscita dalla porta lasciandosi alle spalle un gran rumore.
Ieri è arrivato il silenzio. Quello che precede i grandi annunci, il fracassarsi
dei mobili, le promesse. Giulia fu la migliore. Arrivò qui trascinando
una grossa scatola zeppa di libri. Trascorrevamo ore sul divano a rimbecillirci
di progetti. Bambini. Come se tutta la ferraglia del sud europa,
fin nei dettagli geografici più insignificanti, fosse stata disintegrata
da un'occhiata fugace. Lei, piccola orchidea contro il mio petto, giurava
che presto saremmo partiti per Berlino, Parigi, Lisbona. I nostri giochi
di carta e parole avrebbero fatto felice il mondo. Ci addormentavamo stretti
ed ubriachi, in un'eco immobile di tapparelle abbassate.
Ci svegliavamo quando uno dava una gomitata all'altro, oppure lo mordeva.
Ignari di Lisbona. Ogni giorno daccapo.
Dolcemente consapevoli del nostro ridurci a scheletri.
Yo soy sua sombra. Again. Yo soy sua sombra.
Un giorno diedi un calcio ad un vetro. Una scheggia entrò a fondo nel polpaccio;
caddi, urlando e macchiando di sangue il tappeto scolorito,
detestabile come sempre. Non riuscivo ad alzarmi e Giulia non arrivava.
Semplicemente restai lì, e il sangue a poco a poco decretò che ciò era ingiusto,
e gli indizi di colpa sufficienti. Appena fui in grado di coordinare i movimenti
mi sbarazzai della scheggia e mi fasciai stretta la gamba.
Presi l'enorme scatola con cui era arrivata, ordinatamente riposi dentro
i suoi libri, la chiusi con del nastro adesivo. Quindi aprii la finestra,
controllai con accortezza che a quell'ora nessuno stesse passando per strada,
e buttai giù la scatola.
A mano a mano contribuendo alla pochezza dei reperti.
Presi la foto che avevo nel portafogli assieme ad un gruzzolo di monete,
strinsi tutto nel pugno fino quasi a farmi male, con gli occhi mezzi ciechi
corsi verso la sponda del fiume, scorreva in senso opposto la Senna quella
mattina, c'era un'aria di stagione ammuffita mentre stendevo il braccio oltre
l'argine, preciso, violento, veloce. Mi sentivo come un pilone in mezzo
ad una tempesta. Alleggerito solo di un piccolo carico.
Eldorado d'acciaio in una scorza nera d'aculei. Il mantra si sbriciola
nella canicola, in un approdo negato. Turbìna di polvere secca, a terminare,
disgregata. Dovevo raggiungere il crocevia dei traghetti.
Attendere che passasse il mio fiore irto di spine.
Parlavo di corse sull'altopiano, di visitare ogni anfratto, ogni cunicolo,
parlavo di indugiare su sermoni di corni aztechi. Uno strepitìo obliquo
agitava le tende rosse del suk, il sorgere ondulato di una luna di caccia,
nuova. Attraversavo a passi lunghi e sordi il tratto impervio del ponte,
col timore candido e ubriaco che la penisola potesse essere recisa.
Ne son pieni i cartelli del porto, ne straripano le insegne del deserto:
condottieri mozzati, infermi, echi di morte.
Primavere che non giungono. Gli origami si aprirono un varco nella folla,
schivando i ripostigli delle fiabe, nella luce disarmante e diffusa che intasava
l'aeroporto. Mi fecero storie per un lucchetto. Pensavo alle lunghe trecce
della mia regina reclusa, ai fiotti d'etere sui poveri sudditi, a Ebenezer.
Sembra quasi che il freddo stia intaccando gli alveoli. Eppure conservo memoria
del timoniere. E delle latte scadute, putride e ben firmate, scosse da tic
frenetici. Sotto i miei occhi strabuzzati e ingloriosi. Acid Jazz.
Non ci sono pianoforti in Central Park. Ottantotto mostri a percussione
condannati alla vita vegetale, all'inevitabile asfissia che nasce dal grigiore.
Doveva essere una scena molto buffa. Mi guardava ritagliare fotogrammi di lande
frastagliate e concerti indiani, direttamente dalla riserva.
Sonno e pace artificiale.
Eravamo chiusi e piantati davanti a ripetitori metallici, con l'inevitabile
aspetto ebete di chi avrebbe voluto sparuti cespugli di ginestre, qualche pino,
un tavolo istoriato di incisioni viola - ci fu un periodo in cui anch'io
avevo assorbito il vizio di girare per vicoli in cerca di passaggi coperti
e muri da scalfire - poi la mia grafia si fece sempre più traballante,
al punto che oggi saprei distinguere a fatica ciò che mi apparteneva -
- un tempo. Battere e levare, sorgere e appassire.
Tra le ginestre si innestano immagini di spiazzi polverosi e ciottoli,
parentaglia, partite a pallone con illustri sconosciuti. Ero lì in piedi
a spiegare cose insulse come problemi scacchistici - con l'innato talento
del predicatore borioso, cui devo buona parte della patina di detestabilità
e follia - e d'un tratto tutti assunsero un aspetto dapprima compunto,
poi terrorizzato, e fuggirono attraverso la piccola porta, seguendo il dettato
di un panico irragionevole. Sembravano grossi topi a cercar riparo
nella stessa minuscola tana. Ma riparo da cosa?
Disteso con l'acqua che mi scorre addosso, a fiotti.
E' così breve il respiro di un gesto.
Minute poesie sulla notte che l'istruzione disprezza e cancella,
inghiottendole nel gorgo nero del mito. Vorrei che fossero abitudini, piuttosto.
A conservarne memoria mi sento quasi munito di un'arma. Ho il potere di decidere
il giorno, l'ora, l'istante esatto in cui quel qualcosa verrà seppellito,
cessando per sempre di fremere. Ma non ne gioisco, perchè so che anch'io
potrei essere l'oggetto incantato di un pazzo che trascorre il suo tempo
sui valichi. Un notte magari si toglierà la vita,
e così facendo la toglierà anche a me.
Gomma pesta e carta piuma. Sul dorso bagnato della mia mano
sul dorso degli angeli negri a cominciare dalle scapole e poi
le piccole vertebre del collo che sporgono e nuovamente si nascondono
nell'incavo che si fa strada tra i muscoli scivolando giù verso il bacino
e riemergendo infine come da una sapiente apnea, un'apnea seguita da un boato
un'allucinazione e l'implosione del torace degli spettatori con una mano sullo
sterno un rantolo appena udibile un sibilo da cattiva inspirazione e i passi
di lei a squarciare lo stomaco - diretti sicuri implacabili - altrove.
Le luci del circo piombano in testa alle famiglie stese lì a contemplare
uno spettacolo vecchio come il circo con la bocca pesantemente impastata
invece le luci piovono giù col tendone che ondeggia e si sgonfia
come un copertone stracciato e al trapezista che esegue ugualmente il suo numero
con sprezzo del buio nemmeno la soddisfazione di una tigre
che faccia a pezzi un bambino un dottore una mamma solo una goccia di pianto
a scendere fredda lungo l'incavo dal collo al bacino e un modesto bruciore
alle mani. La medesima sensazione di ritardo colpa e inappetenza
nei gesti lenti e nei rituali rapidi di transito verso le pianure estive
di migliaia di tigri a pascolare sui terreni arsi dal sale delle mezzenotti
dai funerali di Mama Grande dalle brevi parole della bufera e da te
che affondi alle spalle. Gomma pesta, carta piuma.
Alcune leggende siriane descrivono la fine del tempo come "la grande pioggia
bianca". Vorrei anch'io la liberazione dalla cenere, la sconfitta di quella
poltiglia nerastra che scivola maldestra dagli occhi dei miei compagni. Guardo
nello specchietto - è tutto come dovrebbe essere. Nascondo la pistola nel
risvolto interno della giacca, esco dall'auto e faccio segno, come pattuito.
Sarei dovuto restar sui miei velieri, ad affondare assieme alle provviste, ad
ingoiare sale da qui alla grande pioggia.
Invece sono sparito aprendomi uno squarcio nel petto, strappandomi tutte
le ossa, sacrificando gli occhi al sogno. Nel viaggio una bandiera
mi ha seguito. Varcate le colonne, altre colonne. Una diversa disposizione
delle ombre, sottili variazioni sull'ordito, fughe in si maggiore
e un cielo più basso. Amici, non sapete che basterebbe una parola a scatenare
un naufragio. Solo per questo presagio di cecità imminente sono pronto
a farmi sparare alla nuca. Sire mi segua. Tra meno di 10 minuti
avrà il suo dottore, ma ora si copra per bene. Non possiamo dare nell'occhio.
Il tuo odore è ossigeno, mia Giulia. [intermezzo musicale]
Con un respiro pesante come ostacolato da rocce a sporgere dalle sue ossa
la figura curva entro una cornice che rimanda ogni piccolo sole a domani
ancora domani sempre e solo domani ma in quale palude si è nascosto e da cosa,
maledetti insetti, pezzi rottami mattoni metallici sul viso giallo di preghiera
e caratteri tipografici un sassofono segnato in viola con due colpi in canna
e un timone piantato a martellate tra le dita fino a risalire spazzatura
polvere spine lancette proclami stoffa promesse da giurare al dio della fine
ci sono radici terse nella fine e i davanzali di una catapecchia irraggiungibile
dove riporre specchi canne da pesca gente morta conchiglie lucido da scarpe
macchine da cucire carta da parati posate ricordi portamonete. Riposa
e interferisce sulle molle rotte il pregio di silenzio e indifferenza e dovrà
e se la caverà senza aver bisogno mai da buon idolo profano e aiutami Giulia
aiutami prendimi a unghiate non lasciarmi dormire sopra una coltre di ghiaccio
non raccontarmi cazzate rispondimi Giulia rispondimi. Puttana ho chiuso
i cuccioli dentro la scatola di cartone puttana li ho spinti contro la parete
e l'intonaco col pazzo che fuori gridava aveva la gotta il suo annuncio
mortuario mi è rimasto in mente puttana ho messo due grossi vasi sulla scatola
ci sono saltato sopra le schegge mi hanno tagliato un piede con l'ombra scura
che si allargava piano allentando la tagliola nel mio stomaco. Poi ho guardato
il calendario alla parete la casa vuota le sbarre e ho lasciato anch'io la mia
chiazza sul pavimento rosso non sentivo il tuo odore puttana ho dato un morso
alla gamba di una sedia ho sentito il legno che si spaccava e i molari che si
serravano nella gengiva e ho goduto puttana perché ti avrei fatta piangere
ti avrei strangolata e presa a calci ti avrei sfigurato puttana te lo meritavi.
Il tuo seno sulla mia schiena.
Eating a piece of me. Tibi semprer. Cominciava senza grossi scossoni la
traversata che ci avrebbe portati fino ai limiti conosciuti della strada.
Le cahier des extravagances accompagnato da diverse stampe americane sulla neve
e il moto perpetuo di Paganini. Crik crik cigolio di topi crik crik urlo&kaddish
crik crik tempesta, a hard rain's gonna fall, a hard rain, a hard one.
In ogni vela uno sbuffo di lampada accesa, frange di statue immobili,
la calma della radura scura, dei vecchi piloni, del vuoto del cemento.
Strano taglio degli occhi.
Ho intessuto una discreta perizia nel rinvenire le fonti.
Dalle tue parole svettanti ho rapito un accento meticcio, traballante,
diabolico. Schivando i perpetui bequadro che modulavano il tuo ripeterti,
l'allestimento del palco che ha via via acquistato imperfezione,
per poi deflagrare nel silenzio di chi ti ha capito, rabdomanti,
ritoccatori di Mnemonia.
Aikokan. Tenochtitlan. Devi stare tranquilla, è solo qualche linea di febbre.
Il bosco qui attorno è perso nei suoi interstizi, non sa dove andare.
Pensa alle civette che sciamano. Le voci fraterne e incessanti
della nostra terra. Pensa ai corvi che volteggiano, e spariscono
al sorgere di un lampo. Chissà se si fermano a cantare nel vento,
sul confine malridotto e liso del cratere, come in due sognavamo
nelle rapide notti in riva al lago. E pensa ancora a quel settembre
che passammo ad affiggere manifesti, sempre in due, ci sentivamo responsabili
per uno stupido rullo e della colla che non teneva. Grevi aliti di antiche
leggende sui drappi purpurei del proscenio, statuette a lasciarsi incidere
un profilo dalle luci nevrotiche della condanna-a-notte, ballerini sulla
spiaggia che giocavano sul fuoco, deridendolo. Un giorno ne saremo in grado
anche noi, immagina quale arsura sfibrante, e che invidia, una danza immortale
con Dio, che scommette e perde. Non dovremo più pagare pedaggio per vedere
sbocciare i rispettivi fiori. Al cospetto di un cielo più fluido, ti seguirò.
Saremo spodestati unicamente dall'angoscia di una chitarra in fiamme, quell'urlo
che si contorce tra le dita di SnailHand, anche ora che è sotto due piedi
di cemento, anche ora che sbraita e sputa per i proclami isterici dei rioters
affannati. Aikokan dal manto di serpente portala con te.
Aikokan dalle cavigliere dorate, ti affido i miei occhi.
Ma questo è solo un pezzo del Samsara che soffre.
Quel modo che aveva di parlare, senza quasi muovere le labbra.
Le si stendeva un lungo taglio di traverso sul viso e poi cose
Stranissime che solo lei avrebbe potuto pronunciare così.
Grazie a Simon per avermi infilato in bocca un blocco di cemento senza che
riuscissi ad accorgermene. Dita di velluto. Ma tagliamo corto. Preferisco le
imbarcazione fatte d'argento , il deltaplano senza troppe cerimonie.
La sagoma della veranda a proiettarsi a terra. Niente più gente
a scagliarsi addosso dai capi opposti del tavolo, noia inestinguibile
dalle manfrine sulle diverse tribù, la colorazione dei teschi di vetro.
Vi ho già promesso che andremo in cordata ad affrontare i fianchi grassocci
delle piramidi di pietra; ora che i dirigenti aztechi sono spacciati
e non possono più guastare il nostro splendidi giochi profani.
Ci bruceranno le mani. Hey Jimmy, are you gonna to explode just now?
Che importa, ne ruberemo altre paia.
Vagabondando tra le stelle e i loro spettri.
- Modificato il 23.03.05 - 4:04 pm -
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